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Imago Dalmatiae. Itinerari di viaggio dal Medioevo al Novecento

Sebenico

"Passata la riviera delle Castella e procedendo lungo una costa elevata, nuda e piena d'anfratti nel mezzo della quale si prolunga il promontorio di Diomede, in cui fa capo l'altipiano conosciuto sotto il nome di Boraia, landa deserta ed orrida alla vista per l'asprezza del macigno ond'è formata, si arriva a Sebenico. Questa città, in illirico Sebenik, è la seconda del circolo di Zara, posta a 66 chilometri sud-est dalla medesima, giace a guisa d'anfiteatro sopra un pendio, per cui dalle case più alte si scende per diverse scalinatea quelle in riva al mare" (p. 146).

"Sebenico è sede vescovile cattolica, suffraganea a quella di Zara e vescovile greca. Possiede una biblioteca, diverse scuole, una pretura, una pregiata fabbrica di rosolio; il vino detto maraschino che viene estratto dall'uva bianca strafatta si annovera tra i migliori della Dalmazia; è pure pregevole il vino Tartaro, e l'uva della quale si estrae, cresce alle falde del monte omonimo. Gli abitanti che sommano a 5500 circa ritraggono il loro sostentamento dalla navigazione, nonchè dai negozi e dall'agricoltura. Il bacino di Sebenico, unito al mare, aperto mediante un piccolo stretto chiamato canale di S. Antonio, è assai abbondante di pesci, e vi si prendono i dentici o dentali della corona (sparus dentex), così chiamato da una cresta sopra il capo. […].  

La città di Sebenico fu patria di Andrea Schiavoni, esimio pittore che illustrò la scuola veneta nel secolo XVI, dell'illustre botanico Prof. Visiani Roberto e di Nicolò Tommasèo. […]. Non avvi letteratura moderna, io non dirò più ricca della nostra, ma più leggiadra e più varia: e a tale varietà concorsero forse le sventure stesse di questa terra un tempo infelice, oggi, una, libera e grande. Nè la servitù del pensiero, nè il tristo istinto d'imitazione valsero anco nei tempi lagrimevoli a spegnere questa luce del bello che posa sul suolo d'Italia, variata di colori sì gai. Quasi in isparsi frammenti di terso cristallo, brillò vivido in questi ultimi tempi il raggio dell'ingegno Italiano, specialmente ad opera dei sommi: Mazzini, Manzoni, Guerrazzi e Tommasèo, dei quali oggi la madre patria piange fatalmente la morte" (pp. 148-150).

"Nelle acque di Sebenico trovansi varie isolette, parte abitate e parte disabitate, intorno alle quali si pescano coralli e spugne. […]. Gli abitanti di Zlarin dedicansi specialmente alla pesca del corallo, ed a quella delle spugne i Carpanesi. […]. Laonde 16 barche dette coralline con 80 marinai staccansi da Zlavin ogni anno dal maggio al settembre inclusivamente, e vanno a pescare il corallo nei tratti di mare dell'isole dette Incoronate fino alle bocche di Cattaro tra il 42° e 44° di latitudine, e, per essere tale pesca di privativa sovrana, pagano all'erario dello Stato un'annua somma. […]. Il corallo che si pesca nelle acque della Dalmazia, si distingue per consistenza somma, e per colore porporino assai vivace, pregi intrinseci ed esclusivi, per cui primeggia su quanti coralli si pescano fuori dell'Adriatico. Si computa che la pesca annua ammonti approssimativamente a 2000 chilogrammi tra grosso e sottile. Questo ramo di commercio, sì poco considerato in Dalmazia, formerebbe per essa una sorgente di ricchezze, ove si attivasse un'officina per lavorarlo e perfezionarlo. […]. Oltre ai vantaggi che si otterrebbero dal commercio di coralli lavorati, si darebbe impiego a grande numero di operai, […], e così l'arte di lavorare il corallo rimarrebbe in patrimonio della Dalmazia, come quella che ne possiede la pesca.

Il prodotto di questa, nel decennio dal 1865 al 1875 si fu di chilogrammi 8600 di grosso, 11730 di sottile, complessivamente 20330, che venduto all'estero così greggio fruttò soltanto 80530 fiorini, mentre lavorato darebbe un prodotto di 203300 fiorini in ragione di fiorini 10 per chilogrammo. Quanto necessiterebbe che qualche giovine di svegliato ingegno si portasse per un biennio a Genova od altrove, per apprendere un'arte si proficua agl'interessi economici della provincia" (pp. 158-159 e 161-162).

"Sebenico, caduta Venezia, passò nelle mani dei Francesi e quindi ceduta all'Austria colle città sorelle, attende, fidando nella sua prossima redenzione" (pp. 164-165).